Omelie

Omelia del 26 agosto 2012 - Per Anno XXI

ANNO B - 2012

Il cuore della liturgia della Parola di questa domenica è costituito da due interrogativi fondamentali, a cui seguono due divergenti risposte di popolo.

A fare da contro altare al discorso di Gesù circa l’Eucaristia, c’è il discorso che Giosuè, il successore di Mosè, fece al popolo, finalmente approdato nella terra promessa, dopo i quarant’anni passati nel deserto.

Mentre, alla precisa domanda: “Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire”, domanda posta da Giosuè in Sichem, a cui tutto il popolo radunato ed i suoi legittimi rappresentanti, all’unanimità e con ardore, risposero: “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dei!”; non così si comportarono le innumerevoli persone che in quel giorno ascoltavano Gesù, persone che avevano visto, il giorno prima, i segni che solo Dio poteva compiere.

Cosa rispose a Gesù la folla che lo seguiva, attirata dal clamoroso miracolo della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci? A partire dai più vicini a Lui, come i discepoli, fino agli ultimi arrivati, attirati dalla notizia del prodigio, “dopo averLo ascoltato, dissero: “Questa parola è dura. Chi può ascoltarla?” e se ne andarono via!

Quale parola ‘dura’ disse Gesù, così da essere indigesta perfino ai suoi discepoli, che lo seguivano, lo ascoltavano, lo vedevano compiere prodigi da giorni, da mesi, forse da anni?

E’ la stessa Parola che noi, con l’aiuto della liturgia, stiamo ascoltando e meditando da alcune domeniche.

Certamente è una parola dura da capire. Anzi, nessuno di noi può capirla fino in fondo, se ci fermiamo alle sole nostre capacità intellettive.

Parliamo di quell’evento che si rinnova tra noi, per noi e con la nostra collaborazione tutte le domeniche.

Evento che la Chiesa, ogni volta che lo si rinnova, definisce: “Mistero della fede”.

Evento che si attualizza, qui ed ora, ogni volta che celebriamo l’Eucaristia.

Tra poco verrà posto sull’altare pane e vino.

In forza del sacerdozio comune che tutti abbiamo ricevuto con il battesimo, sublimati dal sacerdozio ministeriale ricevuto dal presbitero con l’Ordine Sacro, noi, obbedienti al comando del Salvatore, che ci disse: “Fate questo in memoria di me”, presteremo la nostra voce a Gesù e diremo sul pane e sul vino le onnipotenti parole: “Questo è il mio corpo. Questo è il sangue mio”.

Ma, perché quello che diceva non avesse da essere ritenuto un blando rito commemorativo, come lo interpretano quanti negano la sua presenza reale nell’eucaristia, Gesù usò un linguaggio ancor più incisivo, così da rasentare lo scandalo.

Infatti molti si scandalizzarono, sentendolo dire: “Chi non mangia la mia carne e non bene il mio sangue, non ha la vita”. Cosa fare? Noi siamo favoriti dal Giovedì Santo che ci ha fatto capire con che delicatezza e dolcezza Gesù si fa carne da mangiare e sangue da bere.

Ancora una volta, ma come fosse la prima, all’interrogativo di Gesù,/ diciamo con Pietro: “Da chi andremo? Tu (solo) hai parole di vita eterna…”.

Il parroco: don Rinaldo Sommacal