Omelie
Omelia del 9 agosto 2009 - Per Anno XIX
PER ANNO XIX - ANNO B - 2009
- La prima lettura narra di Elia, un profeta, un grande uomo di Dio. E' in crisi con se stesso, con la sua vocazione, con la sua missione, fino al punto di voler morire.
Ha l'impressione di essere una persona inutile, che la sua predicazione non trovi più ascolto e che il popolo lo abbandoni, preferendo divinità più facili.
Elia confessa a Dio il suo fallimento, riconosce i suoi limiti e Lo supplica: "Prendi la mia vita". Elia è l'esempio della depressione dei giusti.
E' la fragile parte umana presente anche negli uomini di Dio.
Dio non esime i suoi profeti, i suoi sacerdoti, i credenti in Lui, dalla prova, quindi dal momentaneo scoraggiamento. Non c'è profeta che non si lamenti di non essere ascoltato.
Gesù stesso è tentato dal diavolo nel deserto; nell'orto degli Ulivi chiede al Padre che gli venga allontanato quel calice ricolmo di amarezza; dall'alto della croce grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
Che il credente, dal più semplice a colui che è in autorità come un sacerdote, un vescovo, lo stesso Sommo Pontefice, possa essere tentato di scoraggiamento, sotto il peso della missione, non deve sorprendere, anzi deve essere annoverato tra i meriti e non tra le colpe.
San Paolo ci dice che è nella nostra debolezza che si vede la potenza di Dio. Nello scoraggiamento di Elia c'è, però, una colpa: si presenta a Dio come un fallito, quasi che predicare la Parola di Dio fosse solo un affare suo personale.
Elia, e ogni persona credente, tentata di scoraggiamento, deve sì andare a Dio, ma non per consegnarli le chiavi e ritirarsi, bensì per dirGli: "Signore, ripongo in te la mia causa".
Con Gesù, ripetere con intima e profonda convinzione: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito".
Non mancherà, allora, l'aiuto di Dio, paragonabile al cibo per l'affamato, per lo stremato dalla fatica e dal digiuno. - Ed ecco aprirsi la grande pagina del vangelo.
Davanti a certe difficoltà nel credere e nell'interpretare gli eventi, non mormorare contro Dio, ma chiedere a Dio aiuto, l'aiuto giusto, che, come cibo, entra in noi, ci rigenera e ci dà netta la sensazione che siamo, sì, noi a lottare, ma che non siamo soli, perché c'è in noi una presenza nuova, grande, misteriosa, rispettosa, decisiva e che ci fa vedere, quello che prima sembrava negativo, come una occasione per essere nuovi, veri, privilegiati.
Chi è questa presenza che si fa chiamare cibo, "pane di vita, pane di vita eterna?". E' una persona. E' Gesù in persona. Dio ad Elia invia del pane e gli dice: "Alzati! Mangia!".
Gesù zittisce la folla e la invita alla cena dell'ascolto.
Gesù è una presenza totalmente disponibile.
Si presenta come un cibo promesso, che discende dal cielo.
Dio, quando ci creò, volutamente ci diede anche la fame di Dio.
Ci fece creature, ma ci predestinò a passare dalla parte del Creatore.
Quel Dio che creò l'uomo e che in Gesù divenne uomo, fece sì che Gesù diventasse il pane nuovo per fare nuovo l'uomo.
L'uomo che mangerà quel pane, mangerà Gesù.
Chi mangia Gesù, manga Dio e ne assimila la natura.
Gesù, mangiato dall'uomo, porta l'uomo a diventare come Gesù.
Questo è il significato di quelle parole che sconvolsero gli uditori di Gesù: "Io sono il pane della vita... questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia".
Gesù si presenta con chiarezza come il cibo promesso ed inviato dal Padre all'uomo, perché l'uomo lo mangi con appetito.
Ci sono fondamentalmente due modi di far diventare Gesù, sulla tavola, pane: ascoltarlo quando parla. Assimilare quello che dice.
Chi lo ascolta, con fame, lo accoglie in sé e Gesù entra in lui.
E' la prima mensa, la mensa della Parola.
Chi lo ascolta, capisce i segni che Gesù compie e Gli crede.
Se Gesù afferma "io sono il pane disceso da cielo"; se sul pane dice: "Questo è il mio corpo", dice il vero. Gli credo. E' l'eucaristia: Gesù il pane; io l'affamato. Io e Lui: un Noi.
Il parroco: don Rinaldo Sommacal