Omelie
Omelia di domenica 29 ottobre 2006
PER ANNO XXX - ANNO B - 2006
La pagina del Vangelo vede protagonista un cieco, che riesce ad imporsi da protagonista.
"Al sentire che c'era Gesù cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me". La folla lo sgridava e gli imponeva di tacere. Gesù, invece, comandò:"Chiamatelo". Bartimèo, "gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù". Tra Gesù e il cieco corse un intensissimo ed essenziale dialogo. "Che vuoi che io ti faccia?" gli chiese Gesù. Il figlio di Timeo, ora più con il cuore che con la voce, rispose: "Rabbunì, che io riabbia la vista". E Gesù:"La tua fede ti ha salvato. Va'". "Subito riacquistò la vista e prese a seguirlo".
- Bartimèo, il cieco, oltre ad essere il simbolo di tutti i ciechi fisici, è pure il simbolo della cecità intellettuale, spirituale, morale, psicologica di chi si allontana da Dio e dalla fede.
Dio non è una entità astratta, fatta di freddo ragionamento, staccato dalla vita, come spesso si sente dire da chi, intervistato sulla sua religiosità, dice:"Forse un supremo ci sarà!". Per dire chi è Dio, ottime sono le parole di Tommaso, che, dopo il dubbio, scoprì nel Risorto il suo vero Dio e gli disse: "Signore mio e Dio mio". Dio è sicuramente il "Signore", cioè l'origine di tutto e l'infinita pienezza in sé stesso, quello che chiamano il "Supremo".
Ma il Dio di Gesù Cristo è l'IO SONO, l'eternità felice, che si è messo, dopo di averlo creato, da innamorato, alla ricerca dell'uomo, di ogni uomo, che dico, sì anche di me.
Non dovrebbe arderci in petto il cuore a questa affermazione?
Io, proprio io, sono l'oggetto dell'amore di Dio.
Se mi metto in sintonia con questa verità, poichè di verità certa si tratta, allora non posso non dire con Tommaso "mio Signore e mio Dio".
Non ci arrivo ancora? Allora, in fatto di fede, sono proprio un cieco che non vede Dio. Ma se non lo vedo, non significa che non ci sia.
Se ho la vista buona, non devo lasciarmi infinocchiare da chi mi vuol fare inghiottire bugie vendute per verità, quali "Dio non c'è".
Dio sicuramente c'è. Se io in questo momento non sono capace di vederlo, di sentirlo, di amarlo, devo avere l'umiltà di sfidare il rispetto umano, di allontanarmi da chi mi vorrebbe allontanare da Dio, perché io possa finalmente, con tutte le forze che ho, gridare a Gesù: "Figlio di Davide, che io veda". - Cosa voglio vedere?
Per fortuna non ho bisogno di vedere le cose che posso toccare.
Ho assoluta necessità di vedermi nel mio invisibile, ma tumultuoso spirito, e di vedere Colui che, per mio amore, mi ha donato la vita e un'anima, chiamata ad innamorarsi del suo Signore.
Può succedere che anche il credente entri, prima o poi, nel tunnel del dubbio e perda la fede. Bartimèo gli insegna a chiedere: "Che io riabbia la vista". Significa che egli un tempo ci vedeva. Poi perse la vista.
Succede anche a noi credenti: ci sono momenti in cui credere è bello, facile, logico, necessario.
Ci sono fasi della vita in cui tutto si fa buio e sembra che anche Dio sia scomparso o si sia messo contro.
E' quello il momento in cui, più che imprecare contro Dio e chi ce lo predica, è necessario dirGli da innamorati: "Che io riabbia la vista!", che io possa gustare con gioia la fede e che possa trovare nella fede la mia identità, la risposta ai miei interrogativi.
Credere, più che un aspetto intellettuale, è un fatto esistenziale, in cui la mente, il cuore, i sentimenti, le evidenze, i misteri, gli interrogativi e le risposte, ecc. concorrono a farmi sentire in Dio, con Dio, e per Dio, per cui posso dirgli:"Ti amo, perché mi sento da te amato come fossi l'unico". A celebrare questo matrimonio tra me e Dio, interviene Gesù, il sommo sacerdote che sa unire Dio a noi e noi a Dio. Questo matrimonio, uno dei sinonimi della fede, è paragonabile al ritorno dall'esilio di cui parla il profeta Geremia.
Chi scopre Dio, lascia i luoghi del pianto, della schiavitù, della disperazione e ritrova la casa fondata sulla roccia.
Il primo frutto della fede vera è la vera gioia del cuore.
Il parroco: don Rinaldo Sommacal